giovedì 26 giugno 2014

The Morgue: Il Dito nella Piaga


Chiacchierando con Andres Serrano

a cura di Dora


Il panorama fotografico contemporaneo vanta nomi di fama internazionale capaci di catturare, attraverso la lente di un obbiettivo, aspetti della vita che apparentemente ci sembrano scontati, che a volte sfuggono addirittura al nostro occhio.
Quando poi entra in gioco qualcosa di più, quel piccolo, grande elemento che è l'estro creativo, ecco che qualcosa cambia e gli scatti diventano arte, anche quando si tratta di tematiche raccapriccianti, quasi al limite della sensibilità personale.
È questo il caso di Andres Serrano, fotografo americano di origini honduregne, che fa di questo aspetto la sua firma, il suo tratto distintivo.
Inizialmente attratto da un aspetto più convenzionale dell'arte, improntato prettamente sullo studio della pittura e della scultura, Serrano si approccia alla fotografia solo in un secondo momento, riuscendo però ad imporre un suo marchio, forse anche a causa delle tematiche immortalate nei suoi scatti.
Influenzato soprattutto da movimenti artistici quali il Surrealismo e il Dada, Serrano crea le sue prime opere come dei tableaux che incorporano, tra gli altri, elementi di iconografia religiosa, animali morti, pezzi di carne cruda e soggetti umani, ma è il sangue ad essere la cifra artistica del fotografo che ne fa simbolo di passione e violenza, veicolo per esprimere e trasmettere inquietudine e preoccupazione. Non mancano, però, anche i riferimenti ai grandi artisti da Rembrant a Mondrian, oltre che un diffuso interesse verso diverse forme culturali – in particolare indirizzato verso le loro pratiche spirituali, politiche e sessuali – ed anche il tema del memento mori, sempre presente nel suo lavoro nel corso degli anni così come è di fondamentale importanza il legame tra spiritualità/religiosità che lo ha aiutato a ridefinire il suo rapporto con Dio attraverso i suoi lavori, perfino quelli più controversi.
Nascono così Body Fluids e Immersions, rispettivamente del 1985 e del 1990, dove il latte materno, lo sperma, il sangue e l'urina la fanno da padroni incontrastati. È però con Piss Christ che Serrano impone definitivamente il suo stile, diventando famoso (nel bene e nel male), con lo scatto di un crocifisso immerso nella sua urina.
L'intendo del fotografo, però, non è quello di sconvolgere o schioccare, per quanto sia chiara una sorta di spinta in questo senso: Serrano punta soprattutto ad estetizzare il soggetto della fotografia in modo da rendere interessante anche ciò che abietto in natura e per farlo attinge al lessico della pubblicità, a quello della moda sconfinando perfino in quello della pornografia di grande formato, unito ad un’alta saturazione dell’immagine e ad una ricercatezza quasi assoluta della perfezione tecnica e stilistica capace di trascendere l'immagine stessa, elevandola allo status di icona, un po' come succede con le copertine di due album dei Metallica che hanno proprio degli scatti di Serrano come soggetto. Che sia un caso? Difficile a dirsi. Di sicuro Load e ReLoad si fanno entrambi portavoce di questa dimensione iconica avvicinando tra loro due arti che, apparentemente, non potrebbero essere più lontane, la musica e la fotografia, abbattendo i rigidi schematismi e le distinzione di genere.
Di tutte le fotografie che Serrano ha scattato durante la sua carriera, sono forse quelle che compongono la serie The Morgue a riassumere alla perfezione la sua idea di arte e bellezza nascosta nei più profondi ed oscuri recessi dell'esistenza umana. Il progetto, portato a termine nel 1992, ha visto Serrano impegnato per più di due mesi all'interno di un obitorio americano a strettissimo contatto con la morte, quella più vera e brutale. Il fotografo ha immortalato decine di corpi portando all'estremo l'idea di arte. Com'è possibile che dei cadaveri possano essere così belli da guardare? Come può la morte stessa inchiodare lo sguardo dello spettatore tanto da non permettergli neppure di distoglierlo una volta che viene fissato sullo scatto? Arte ed emozioni. Estetica e sentimenti. È da questi presupposti che prende il via l'intervista con il fotografo, un colloquio alla ricerca delle sensazioni più vere e profonde capaci di dare un senso a tutto quanto, perfino a quello che, di norma, sembrerebbe raccapricciante e spaventoso, ma che alla fine si dimostra essere solo e semplicemente arte allo stato puro.


D: Prima di cominciare con le domande sicuramente più inerenti all’aspetto emotivo, inizierò chiedendole di soddisfare una mia curiosità riguardo all’attrezzatura che lei usa per i suoi lavori e se preferisce scattare con una macchina fotografica digitale o se, invece, predilige l’uso della pellicola.
R: Tutto il mio lavoro viene fatto su pellicola, non scatto in digitale. Essendo The Morgue un progetto del 1992, ho usato una pellicola Kodachrome, mentre adesso uso la pellicola Provia. Per quanto riguarda l’attrezzatura tecnica, la mia macchina fotografica è una Mamiya RB 67 oltre che tutto l’impianto di illuminazione.

D: La mia ricerca si focalizza sulla veridicità dei sentimenti e sulla mediazione dell’arte. In The Morgue quanto di quello che vediamo nello scatto finito è reale e quanto è mediato? 
R: Tutto in The Morgue è vero, reale. La sola cosa che mi sono limitato a fare, e solo occasionalmente, è stata quella di capovolgere i braccialetti identificativi al polso quando questi recavano informazioni sul soggetto ritratto. Ho anche avuto cura di proteggere i volti delle persone per non renderle riconoscibili. Per quanto riguarda la mediazione, cerco sempre di essere un mediatore invisibile e distaccato, non mi piace intromettermi tra il soggetto ritratto e lo spettatore.

D: Facendo ricerche approfondite, molti concordano nel definirla una sorta di moderno Caravaggio per l’uso che fa della luce, per l’accortezza che mette nel ridare allo spettatore un’immagine quanto più vera possibile. Si riconosce, anche solo un po’, in questa descrizione che fanno di lei e del suo lavoro?
R: Sono molto lusingato da questo paragone. Credo non ci sia onore più grande ad essere paragonati a Caravaggio. Del pittore condivido un temperamento vigoroso e un’estetica audace.

D: Com’è nato il progetto di The Morgue? Che cosa l’ha spinta a scegliere un soggetto così particolare per degli scatti fotografici? 
R: È sempre stato naturale per me essere interessato alla tematica della morte. La questione non è tanto perché l’hai fatto, quanto perché no?

D: L’obitorio è un luogo difficile nel quale lavorare, ci si scontra con una sorta di violazione di tabù sociali non indifferenti che lo vedono come un luogo nel quale non ci si dovrebbe avventurare, tanto meno per scattare delle fotografie. Lei come si è mosso all’interno di questo luogo? Che cosa vuol dire entrare fisicamente in un obitorio?
R: L’obitorio è un posto come un altro dove delle persone lavorano. I medici ed i tecnici avevano il loro lavoro da fare e io il mio. Ho avuto il permesso di fotografare qualsiasi cosa volessi con il solo vincolo di coprire i volti delle persone per tenerli nascosti. Entrare in una camera mortuaria è un po’ come entrare in chiesa. 

D: Ritornando a parlare di sentimenti: la maggior parte delle volte ci si sofferma su come possa reagire uno spettatore davanti ad uno scatto fotografico, raramente ci si chiede cosa prova il fotografo che si trova faccia a faccia con la realtà che si sta osservando. Che tipo d’esperienza è stata la sua mentre lavorava in obitorio?
R: Provo un sentimento di meraviglia e allo stesso tempo di paura davanti ai miei modelli. A volte guardo verso di loro, spesso letteralmente ed è questo ciò che provo. Lavorare in obitorio non è stato un problema per me: avevo qualcosa da fare e l’ho fatta, tutto qui. Non vorrei mai che qualcosa interferisse con la mia capacità di lavorare. È stata sicuramente un’esperienza che ti fa capire il senso delle cose.

D: La maggior parte degli scatti si focalizza su dettagli dei corpi fotografati – le ferite, gli arti, parte del volto, gli occhi, le orecchie – piuttosto che sulla figura intera del soggetto: era già partito con questa idea in mente o è stata una scelta maturata mentre procedeva con il lavoro?
R: È stato per proteggere la loro identità. Una volta che conosci i tuoi limiti, sei poi libero di esplorare, sperimentare.

D: Che cosa ha cercato di raccontare con queste fotografie? Che cosa rappresentano per lei questi corpi mostrati nel loro momento di massima fragilità? Si è creato un rapporto empatico con le loro storie e con il modo in cui sono morti, o è riuscito a mantenere un distacco emotivo necessario per poter portare a termine il lavoro? Penso, ad esempio, allo scatto dal titolo Death by drowning II, non è difficile trovarsi davanti a qualcosa di un così forte impatto emotivo?
R: Voglio comunicare un senso di bellezza, di dignità, di riverenza e rispetto. Ho scelto di intitolare le fotografie con la causa della morte dei soggetti ritratti non per mostrare distacco, quanto per dare informazioni a chi avrebbe poi guardato le immagini. Credo che i titoli possano avvicinare di più alle immagini. Quando guardo nella macchina fotografica, vedo solo un’opera d’arte davanti a me. Quella che tu chiami “grande debolezza” ha lasciato un segno ed un ricordo indelebile in me.

D: Le immagini che ci mostra sono, a mio avviso, molto belle nonostante siano anche palesemente dure e scioccanti. Noi spettatori siamo come catapultati all’interno di un mondo a metà tra la vita e la morte, sembra quasi di spiare questi corpi privi di vita appropriandoci dei loro ultimi istanti. È un effetto voluto, o solo qualcosa che non si può controllare, che prende forma in un secondo momento quando la fotografia è stata scattata?
R: Quello che voglio fare è catturare ciò che vedo per incapsularlo così da mostrarlo anche agli altri. Ciò che conta davvero per me è fare arte.

D: C’è un’immagine in particolare che, secondo lei, può riassumere in sé tutto il senso della collezione? E se c’è, qual è il motivo?
R: Infectious Pneumonia, il ritratto della donna con il velo rosso sugli occhi è l’immagine che riassume meglio il senso di tutto The Morgue per me. È uno scatto classico, quasi come un quadro rinascimentale. Inizialmente era uno di quegli scatti che non avrei mai selezionato, in un primo momento non riuscivo a vedere la bellezza che cercavo in lei. Qualche giorno dopo, quando non avevo più nulla da fotografare, ho rivolto ancora lo sguardo verso di lei e ho scoperto che era la mia fotografia preferita.

D: Immagino che le fotografie che compongono la collezione non siano tutte quelle raccolte nel corso del progetto: come ha scelto quali scatti mantenere e quali eliminare? È solo una mera questione tecnica di perfezione dell’immagine a livello visivo a determinare una scelta, oppure c’è anche una componente emotiva che la aiuta a decidere in un senso o nell’altro?
R: Quando ho montato tutta la collezione ho selezionato circa una quarantina di immagini, è stata una selezione decisamente rapida. Solo anni dopo, quando qualcuno mi ha chiesto se avevo altre immagini, mi sono reso conto di avere circa duecento scatti riguardanti The Morgue. Credo che ne farò un libro e una mostra.

D: Non tutti hanno le stesse reazioni emotive davanti ad un tema così importante come quello della morte. Tanti spettatori, una molteplicità di atteggiamenti e di stati d’animo: ci sono stati dei comportamenti che, più di tutti, l’hanno particolarmente colpita – in positivo così come in negativo – e, più in generale, si aspettava il modo in cui le persone hanno accolto il suo progetto fotografico?
R: Sono stato molto colpito dal fatto che The Morgue sia stato così ben accolto. La maggior parte delle persone dice che è il lavoro che più preferiscono tra tutti quelli che ho fatto. 

D: Lascio per ultime forse le domande più importanti, ma che probabilmente racchiudono un po’ tutto il senso di The Morgue: cosa vuol dire per lei fotografare la morte? Che intenti si era proposto con questo progetto e, in definitiva, è riuscito ad ottenere ciò che voleva?
R: Il mio scopo è sempre lo stesso: creare un’opera d’arte. E sì, penso proprio di esserci riuscito.

È questo il fine ultimo di Serrano: estetizzare l’osceno nel tentativo di trovare la bellezza e la meraviglia perfino in quell’orrore quotidiano della morte con lo scopo di creare vere e proprie opere d’arte potenti e avvincenti. La morte fa parte della vita, esserne attratti è quanto di più naturale ci sia al mondo ed è proprio per pacificare questa sorta di curiosità verso ciò che non è afferrabile o comprensibile il fotografo attua questa sorta di esercizio spirituale ed estetico alla ricerca della vita alla fine del suo corso. La vita, non la morte.
E voi riuscite a sostenere lo sguardo? 

Nessun commento:

Posta un commento